Novembre 2022: al fianco di Daniele De Rossi
In questa edizione della newsletter: un'intervista a Carlo Cornacchia, il nuovo vice allenatore della SPAL che ha lavorato nel calcio statunitense, con Claudio Ranieri e ora assiste DDR
se leggi questa mail è perché ti interessa sapere cosa combina LoSpallino.com. Non preoccuparti, non ne riceverai molte: appena una al mese, ammesso che non succeda qualcosa di particolarmente sconvolgente al punto tale da scombinare i ritmi vitali della nostra testata. Quello che è successo nella prima parte del mese di ottobre, con l’improvviso avvicendamento tra Roberto Venturato e Daniele De Rossi.
Una cosa che il nuovo allenatore ha fatto dal primo giorno è stata mettere grande enfasi sul peso specifico del lavoro di squadra nel contesto del suo staff tecnico. Quando parla con la stampa De Rossi usa raramente il termine “io”, preferendo invece il “noi”. In quel “noi” sono inclusi sei professionisti che l’ex centrocampista ha portato con sé per raddrizzare la SPAL.
Tra questi c’è Carlo Cornacchia, che nell’organigramma figura come vice-allenatore e dall’alto dei suoi 56 anni - che non dimostra affatto, bisogna riconoscerlo - è il componente più anziano del gruppo di professionisti che accompagna DDR. Difensore di buon livello tra gli anni Ottanta e Novanta (49 presenze in serie A, 65 in B), dopo il ritiro dal calcio giocato ha lavorato come fisioterapista prima di trasferirsi per quasi quindici anni negli Stati Uniti, nello stato del Colorado. Nel 2017 ha deciso di tornare da questa parte dell’oceano per lavorare col suo mentore calcistico Claudio Ranieri.
Grazie alla collaborazione dell’ufficio stampa della SPAL abbiamo avuto la possibilità di fare una chiacchierata per conoscerlo meglio e capire come funziona lo staff del nuovo mister biancazzurro.
Carlo Cornacchia non è solo uno strano record
di Alessandro Orlandin
[Carlo Cornacchia durante una sessione d’allenamento, foto Damiano Fiorentini / SPAL]
Carlo, non solo sei un po’ lo zio di questo staff, ma sei anche l’unico che ha effettivamente i gradi per allenare in serie B senza alcuna deroga grazie al “master” di Coverciano.
"Eh sì, ma nonostante lo staff non abbia l'esperienza che potrei avere io in termini di anni di attività, la cosa importante è che ognuno sia estremamente preparato come conoscenza del gioco e dinamiche di gestione del gruppo. Le sottigliezze, i dettagli. Per me è veramente piacevole quando facciamo le nostre discussioni che spesso sono interminabili. Insieme svisceriamo ogni dettaglio della vicenda che vogliamo analizzare e i colleghi sono straordinari nelle loro analisi. Spesso sono io a imparare da loro perché hanno un modo di vedere che può completare il mio. Se fai parte di un gruppo di lavoro non puoi essere chiuso alle altre prospettive e devo dire che sto vedendo grande capacità di ascolto. Spesso uno finisce col completare un ragionamento avviato da un altro. Per cui credo sia importante soprattutto ascoltare e saper portare soluzioni: poi ovviamente l'ultima parola spetta a Dani".
Spesso, durante le partite, si vede De Rossi confabulare con Mancini, Giacomazzi e tutto il resto dello staff. Segno che il confronto va avanti anche lì.
"Lì però il procedimento deve essere l'esatto contrario. Ovviamente se c'è tanto tempo per decidere c'è anche tanto tempo per analizzare. In partita invece ci sono tantissime informazioni da filtrare nel minore tempo possibile. L'allenatore in genere non ha bisogno di moltissimo confronto con lo staff, ma se ha dei dubbi giustamente ne discute velocemente. La soluzione va trovata in pochi secondi e per questo è importante aver lavorato bene in settimana, perché se ci si è preparati per bene non è difficile elaborare una strategia. Pressare più alto o basso; giocare un calcio piazzato in un modo anziché in un altro; decidere una sostituzione... tutte cose che si possono decidere grazie all'analisi fatta precedentemente. Una volta si lavorava tantissimo a livello fisico e meno con le informazioni, mentre ora c'è la possibilità di avere a disposizione ciò che serve per prendere decisioni sensate in pochissimo tempo".
Nel calcio di un tempo c’era penuria di informazioni, ora sembra esserci quasi un eccesso di dati a disposizione. Non rischiano di essere problematici da gestire?
"Se da giocatore avessi avuto allenatori in grado di disporre delle informazioni che ci sono adesso probabilmente avrei allungato la mia carriera di dieci anni. Quindi non credo ci siano troppe informazioni di per sé: dipende sempre dalla quantità che decidi di utilizzarne nel tuo lavoro. All'interno del nostro staffi ci sono gli analisti, Simone (Contran) e Francesco (Checcucci), che danno un contributo straordinario. La loro abilità sta soprattutto nel ridurre il volume di informazioni che ci viene trasmesso in modo da facilitare il più possibile il nostro lavoro. Hanno un occhio eccezionale e questo permette di analizzare solo i passaggi cruciali. Poi ovviamente i dati bisogna saperli contestualizzare e soprattutto leggere: se mi viene detto che in una partita ci sono 50 cross dalla sinistra me ne faccio oggettivamente poco. Per chi sono quei cross? E quanti vanno a segno? Se aggiungiamo questi filtri allora possiamo ottenere una metrica sensata e che diventa utilizzabile in preparazione".
Dubito che la soglia di attenzione dei calciatori sia altissima: come si fa a trasmettere loro il giusto quantitativo di informazioni e soprattutto tenerli coinvolti?
"L'attenzione è un aspetto fisiologico degli umani in generale ed è una cosa limitata, per cui noi usiamo video molto corti. Se fai dei video di cinquanta minuti ammazzi i giocatori e perdi solo tempo. Una volta, quando ero in attività io, ci facevano vedere tutta la partita, spesso senza fermare il filmato. E se veniva fermato ovviamente i tempi si allungavano ulteriormente. Oggi questo non ha più senso. L'analisi video invece deve essere una delle componenti dell'allenamento, perché ti permette di esaminare situazioni che riguardano sia la squadra sia i singoli. Il denominatore comune è comunque l'incisività di quei contenuti perché rappresentano un mezzo per trasmettere concetti che vanno metabolizzati successivamente. Spesso non c'è un confronto immediato coi giocatori su quanto discusso, ma il tutto viene fatto un po' depositare per essere ripreso in campo".
Con la ricerca “Carlo Cornacchia” su Google vengono restituiti soprattutto due risultati: il ricordo di una clamorosa tripletta del 1992 al Foggia nel giro di soli 14 minuti (!) e molteplici riferimenti alla collaborazione con Claudio Ranieri dal 2017 al 2022.
"Con Claudio il rapporto veniva da lontano perché ero stato un suo giocatore al Cagliari (1989-1991, ndr). Al momento della sua chiamata ero negli Stati Uniti, vivevo lì da ormai 14 anni. Il mister era appena stato ingaggiato dal Nantes, tra l'altro in circostanze abbastanza turbolente perché il suo predecessore Sergio Conceicao aveva deciso di risolvere il contratto a inizio giugno per andare al Porto. In quella fase stava mettendo assieme al suo staff e mi chiamò: impiegai due secondi a dire di sì".
In pratica dalla sera alla mattina hai deciso di attraversare l’Atlantico per tornare in Europa.
"Eh, ho fatto proprio così (ride, ndr) perché pensavo che sarebbe stata una scelta ideale per la mia carriera. Stavo andando a lavorare per uno dei più grandi allenatori degli ultimi cinquant'anni. C'erano delle difficoltà, ma anche l'opportunità di imparare tantissimo come è effettivamente avvenuto. Anzi, più che difficoltà direi sfide. La barriera linguistica, la lontananza dalla famiglia... ma è stata una decisione che ho condiviso con mia moglie e i miei figli".
Ranieri, soprattutto in tempi recenti, si è costruito la fama di allenatore subentrante che risolve problemi. Situazione nella quale si è trovato De Rossi.
"Quando entri in corsa devi per forza risolvere dei problemi, quindi la parte iniziale del tuo incarico la spendi in gran parte nel tentativo di capire quali sono e quali soluzioni potrebbero richiedere. La sfida principale sta lì. Poi ogni caso ha la sua storia e per questo non si possono applicare ricette precostituite, soprattutto quando si lavora in contesti molto diversi tra loro".
Com’è stato il passaggio da ex giocatore a collaboratore di Ranieri?
"Molto facile, perché conoscevo l'idea di calcio di Claudio e che tipo di giocatore predilige: quello che non molla mai, a prescindere dalle qualità di cui è dotato. Ovviamente ci sono dei requisiti minimi per stare a un determinato livello, ma il bello di Claudio è che quando urla non lo fa per rimproverare, ma per incoraggiare a fare molto di più, soprattutto quando c'è un momento di difficoltà. I giocatori vanno stimolati, perché solo quando lo sono possono fare il salto di qualità. Ma lo stimolo decisivo non deve essere esterno, bensì interiore: è qualcosa da far scattare. E l'allenatore deve essere bravo a capire quale giocatore ha più facilità a sentire quegli stimoli interiori, perché così può dedicarsi agli altri, quelli che invece non hanno ancora trovato la giusta conoscenza, il giusto equilibrio.
Di recente la leggenda dell’NBA Shaquille O’Neal ha ribadito che a suo parere i campioni non hanno bisogno di un allenatore per rendere, tanto sanno sempre cosa fare. Sono gli altri, quelli “normali”, a dover ricevere delle indicazioni.
"Beh, O'Neal può dire una cosa del genere perché è stato un fuoriclasse e quindi a lui veniva tutto semplice, anche se c'è una parte di verità in questo suo ragionamento. Se si potesse fare senza l'allenatore ci sarebbe chi sceglierebbe di adottare questo modello. Ma invece l'allenatore è necessario e svolge un ruolo molto delicato perché deve essere prima di tutto un leader. Che indica la strada, fissa compiti e responsabilità, definisce dei valori condivisi all'interno dei quali il gruppo deve funzionare. In più deve dare energia per fare in modo che l'intensità sia sempre alta. Ma l'elemento che fa la differenza è il senso di appartenenza, che è quella cosa che ti fa tornare ogni giorno la voglia di andare al campo e fare allenamento con i tuoi compagni. Se manca questo tipo di spirito hai solo un gruppo di professionisti che si vede al campo e fa quello che deve fare perché è il suo lavoro".
Quanto conta la capacità di stabilire una vera empatia? Tacopina ha detto che è una delle caratteristiche per le quali ha voluto De Rossi alla SPAL.*
"È molto importante che un allenatore sia dotato dell'abilità di entrare nella testa di un giocatore, anche fuori dal campo. In passato ho avuto modo di confrontarmi con Eddie Jones, l'attuale allenatore della nazionale inglese di rugby. Secondo lui ogni giocatore ha il suo 'sweet spot', ossia quell'elemento caratteriale che ti permette di entrargli nel cuore per comprenderlo profondamente. Ogni giocatore ha la sua storia e un suo modo di pensare, ma soprattutto ha fame di sapere. Per cui un allenatore ha la responsabilità di creare un ambiente positivo, in cui ciascuno si possa rilassare e lasciare fuori gli eventuali problemi della vita quotidiana o le critiche che hanno ricevuta. Alla fine ciò che un giocatore chiede implicitamente a un allenatore è qualcosa di molto semplice: 'Come faccio a diventare più bravo di così?'. Quindi si tratta di lavorare per far fruttare un potenziale, a prescindere che sia grande o piccolo".
Che la SPAL abbia un potenziale inespresso sembra opinione abbastanza comune.
"All'interno dello staff siamo tutti convinti che i giocatori abbiano un potenziale X e pensiamo che attraverso una certa strada riusciremo a metterlo nelle condizioni di essere espresso. Ciò che è importante è mantenere la rotta anche davanti a una battuta d'arresto come può essere stata la partita col Benevento. Non si tratta di rivedere ciò che si sa, anzi: va rinforzato con un lavoro basato sulla fiducia e sulla sicurezza nei propri mezzi".
Ora De Rossi è chiamato a fare tutto questo e ad ottenere risultati.
"Daniele ha iniziato adesso e ha straordinarie qualità, anche perché era già un allenatore quando giocava. L'ho visto coi miei occhi nei tre mesi alla Roma. È un leader nato, per quanto di poche parole. Ma quanto parlava faceva tutti ascoltavano. Ora ha un ruolo diverso e una chiara idea di cosa vuole fare. Grazie alla sua intelligenza vede le cose in anticipo. In più ha una predisposizione naturale al lavoro di gruppo. Qualcosa che molti allenatori non hanno, perché magari hanno enormi conoscenze ma poca propensione alla gestione degli uomini. È quasi un lavoro nelle risorse umane".
Prima di rientrare al “Mazza” da vice di De Rossi il tuo ultimo precedente con la SPAL non era stato molto favorevole. Marzo 2019, SPAL-Roma 2-1.
"Fu una partita un po' strana, che forse poteva finire in parità, ma mi impressionò moltissimo la SPAL. Mi piacque l'atteggiamento combattivo e c'è da dire che c'erano giocatori notevoli: Lazzari, Fares, Murgia, Kurtic, Petagna... Dopo quella prestazione pensai che la squadra fosse dotata delle qualità necessarie per salvarsi come poi è successo".
Rimase impressa anche la sincerità di Ranieri, che ammise senza problemi la sconfitta senza ricorrere alla retorica degli “episodi”.
”Non mi sorprende: Claudio è uno che va dritto al punto e non ha problemi a dire che la sua squadra non ha meritato di vincere. Lo deve al suo carattere, ma anche al suo palmares: non ha bisogno di arrampicarsi sugli specchi".
Tra la SPAL e Cornacchia ci sono stati incroci anche sul campo, da calciatore.
"Sì, in serie C, quando giocavo nella Reggiana (1988/1989). Perdemmo a Ferrara (gol su rigore di Valori) e vincemmo al ritorno (1-0, Zamuner). Noi in quella stagione fummo promossi in serie B (mentre la SPAL scese in C2 per la prima volta nella sua storia, ndr)".
Dalle parti di Reggio sei rimasto a fine carriera prima di trasferirti negli Stati Uniti.
"Mia moglie è americana e quindi siamo spessi stati in Colorado in vacanza perché lei è cresciuta lì. Nei vari viaggi mi sono sentito molto vicino alla cultura americana e ad un certo punto ho deciso di mandare curriculum a destra e sinistra per provare a trovare un lavoro nel calcio. Un giorno è arrivata la chiamata del Colorado Rush e così mi sono trasferito per rimanerci ben quattordici anni. Ho fatto da director of coaching, ossia da responsabile di una sezione del club denominata 'senior division'. In sintesi mi dovevo occupare delle squadre che andavano dall'Under 15 all'Under 23 per quanto riguardava la scelta degli allenatori e la loro educazione all'interno delle linee guida della società. Era un ruolo paragonabile a quello del manager all'inglese, in cui c'è tanto ufficio ma anche tanto lavoro sul campo. Anche perché negli Stati Uniti c'è una cultura del lavoro molto seria, fatta di giornate da dodici ore come minimo. Ho visto centinaia di ragazzi passare nelle nostre squadre e poi costruirsi carriere rispettabilissime, sia nel maschile sia nel femminile”.
La SPAL di De Rossi finora si è distinta soprattutto per una certa solidità difensiva e nell’ultimo mese si è parlato molto del valore di due giovani come Peda e Dalle Mura. Cosa si può dire su di loro?
"Ci sono delle cose che a volte accadono per forza. Quando siamo arrivati qui Marco (Varnier) e Matteo (Arena) erano infortunati e in teoria i titolari erano loro. Ma qualcuno doveva pur giocare (ride, ndr). C'è stata un'attenta valutazione e i ragazzi hanno risposto in maniera eccellente. Siamo fiduciosi perché entrambi hanno capito che possono competere a un certo livello e questo li farà crescere. Non badiamo tanto all'età: se uno dimostra di avere gli attributi giusti va in campo senza alcun problema. Per noi parlano le prestazioni in allenamento e in partita, altri parametri passano in secondo piano".
In teoria Arena e Varnier dovrebbero essere a posto: ora entreranno in competizione coi due ragazzi.
"Sarà interessante, ma è anche meglio così. I risultati migliori si ottengono con la competitività. Prendo in prestito un paragone di carattere storico fatto dallo scrittore Daniel Coyle: nella Firenze del Rinascimento gli artisti si davano battaglia per aggiudicarsi le commesse dei vari potenti e lo facevano creando con opere sempre più grandiose. Nel frattempo nelle botteghe degli artisti crescevano apprendisti che erano esposti costantemente a questo genere di competizione. Per tornare al calcio: se un ragazzo è a questo livello è forte. Ma deve fare qualcosa per convincermi del fatto d'essere meglio dell'altro. Al tempo stesso se uno è in svantaggio nella competizione non deve sentirsi messo da parte. Sviluppare un risentimento verso l'allenatore che fa scelte diverse è uno dei più grossi errori che si possa fare, perché paradossalmente facilita la scelta e peggiora la situazione. Il sogno di un allenatore è proprio quello di instillare il fuoco in chi gioca di meno. Fargli dire: 'Ora ti dimostro che ti sbagli'. Quando facciamo una sostituzione diciamo sempre ai ragazzi: 'Fai la differenza'. Non: 'Ci aspettiamo questo o quello'. Ma 'Fai la differenza, devi essere meglio di chi è uscito', proprio perché vogliamo arrivare al punto in cui le scelte possono essere messe in discussione".
De Rossi ha parlato spesso del suo adattamento all’ambiente SPAL dopo aver vissuto in contesti enormi come Roma e Buenos Aires. Per te come sta andando questo processo?
"Non è stato difficile perché avevo trascorso già due anni a Reggio Emilia da giocatore e poi ci sono rimasto molti altri a carriera conclusa. Il clima meteorologico già lo conosco (ride, ndr). Quando ho saputo dell'opportunità della SPAL sono stato felicissimo. Perché questo è un club che ha una fortissima connessione con la sua gente. Mi sta molto a cuore il concetto di squadra-club-comunità. Sono i tre livelli che formano lo spirito di squadra. Questa relazione è molto più difficile da trovare in città più grande dove magari ci sono diverse realtà. Qui la gente tifa per la SPAL e si vuole identificare in essa. Ovunque io vada sento un'energia straordinaria e questo mi dà motivazioni enormi. Perché c'è gente che vuole bene alla SPAL e si fa il mazzo dalla mattina alla sera per metterla nelle condizioni migliori possibili. Anche all'interno del club c'è gente così, che non ci fa mancare niente. Quale altro miglior ambiente puoi trovare?".
Per avvicinare la comunità avete in mente anche di riaprire le porte per qualche allenamento? De Rossi si è detto contrario a quest’idea.
"Perché no? Ci sono momenti in cui le cose vanno tenute private, però penso che entro breve, una volta trovata una certa stabilità, si possa dare un'opportunità, soprattutto nelle occasioni in cui la squadra non sta facendo lavori troppo specifici. Quando ero a Nantes il giovedì c'era l'allenamento aperte ai bambini delle scuole, ne venivano anche 500. Era un bel modo per tenere il club vicino alla comunità. Così come sarebbe bello usare la grande visibilità mediatica della SPAL per mettere in luce altre realtà sportive o atleti che magari faticano a fare notizia nonostante i loro risultati".
Da ex reggiano hai già fatto presente ai giocatori quanto pesa il derby col Modena?
"(Sorride, ndr) Non ci avevo ancora pensato… Per quanto riguarda la preparazione in sé è una partita come le altre, poi sappiamo che per il pubblico assume un significato diverso. Quando ero a Nantes con Ranieri vennero a farci visita i tifosi al campo prima del derby in casa col Rennes. Ci dissero: 'Potete perdere tutte le partite ma non questa'. In quel periodo stavamo andando bene e finì 1-1. Considerato che il Rennes era molto forte si trattava di un risultato molto positivo. Mi sento di dire che noi la prepareremo bene, poi se qualcuno vorrà metterci qualcosa in più tanto meglio".
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Alessandro Orlandin
e la redazione de LoSpallino.com